Mia madre usava ingredienti diversi da quelli che uso io, ci sono materie prime di cui lei ignorava l'esistenza. Bisogna prendere il meglio del passato e portarlo nel futuro. Bisogna mantenere sempre viva una chiave critica.
I miei colleghi danesi, newyorchesi, parigini, italiani, sudafricani, australiani o tedeschi stanno tutti reclamando un proprio spazio e una propria identità nel mondo della cucina spostando l'attenzione da una cucina istituzionale e pomposa a una cucina stagionale, fresca ed emozionale, connessa al proprio territorio e alla propria anima.
Io non mi ritengo un artista, ma un artigiano capace di concettualizzare le proprie realizzazioni che nascono dall'incontro di idee, culture, tecniche e gesti.
Alain Ducasse ha segnato la cucina degli anni Ottanta-Novanta. Mi ha trasmesso l'ossessione per la qualità degli ingredienti: il tartufo, l'aceto balsamico, il parmigiano. È una condanna, perché puoi apparire arrogante, ma ti porta all'eccellenza. I francesi però si sono fermati a Ducasse, nel DNA hanno uno snobismo che impedisce...
Vi può essere ricerca in cucina, senza la voglia di esplorare e percorrere nuove strade in un processo che può essere definito creativo. In questo senso si possono riconoscere delle analogie rispetto al lavoro di un architetto, un poeta o un musicista.
Achille Bonito Oliva mi ha definito il sesto artista della Transavanguardia. Io mi ritengo un semplice artiere: un artigiano con l'ossessione per l'eccellenza.
Il problema non sono gli alimenti, ma lo stile di vita. Non puoi negare a una bambino la merendina e la Coca-Cola, ma poi non deve stare seduto davanti al computer tutto il giorno.