I reality televisivi generano mostri. L’ultimo indizio arriva da Bologna, dove il responsabile delle cucine del Policlinico lamenta di non riuscire a trovare un solo studente delle scuole alberghiere disposto a lavorare con lui. Nessun aspirante cuoco smania dalla voglia di mescolare il semolino e impiattare la frutta cotta. Tutti pretendono di fare pratica nei ristoranti stellati, anche se lì poi si ritrovano confinati a pelare le stesse patate che nella mensa dell’ospedale potrebbero almeno trasformare in purea. Intendiamoci, il reality alla MasterChef rimane un genere benemerito che ha rivalutato mestieri ingiustamente sottratti alla considerazione sociale. Grazie alla tv, il cuoco e il pasticciere sono assurti al rango di guru che negli anni Ottanta era una prerogativa dei sarti. Ormai le mamme si vantano più di un figlio laureato in cucina che di uno laureato in medicina. Perciò mi auguro che i reality vengano estesi a tutte le occupazioni manuali e anche ad alcune professioni intellettuali circondate ultimamente da un certo scetticismo: il banchiere e il politico, per esempio. Eppure vorrei unire la mia flebile voce a quella del capo-cuoco del Policlinico. Occhio, ragazzi, perché per sfondare nella vita non serve fare meglio degli altri quello che vorrebbero fare tutti, ma fare meglio che si può quello che non ha ancora saputo fare nessuno. Il prossimo Cracco non uscirà dalle cucine di Cracco, ma dalla prima mensa ospedaliera che si inventerà un semolino decente.
Cit.
MasterMensa, ‘Il caffè’, Corriere.it, 19 ottobre 2017