Da giovane, quando pedalavo verso casa dopo una giornata all’università, poi durante le notti di guardia in ospedale o quando sollevavo la testa dal microscopio perché gli occhi mi bruciavano, mi domandavo: qual è il senso di tutto ciò? Non ho mai smesso di pormi quella domanda, e ho continuato a ritenere che la risposta migliore fosse: “pensare”. Era la prima risposta che mi ero dato quando, da ragazzino, ero arrivato a un soffio dalla morte, sopravvissuto allo scoppio di una mina. Per sei mesi a letto, immobile e sofferente, circondato dalla disperazione della guerra, sperimentai gli estremi di cui vive ancora oggi la condizione umana, lo strazio del dolore e l’incanto della dedizione all’altro. Capii che pensare, non smettere di cercare le risposte più difficili, erano la reazione alla sofferenza e al male. Da medico e scienziato, quel “dovere di pensiero” trovò una sua declinazione nel lavoro per migliorare la vita delle persone, nella lotta contro il cancro, contro il dolore fisico e psichico che esso può causare
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