Qualche mese fa mi capitò di parlare con i miei figli del Sudafrica, mentre vedevamo una delle partite del Mondiale di calcio 2010. Si parlava tanto di questo Paese che il mappamondo ficca laggiù in basso, che per vederlo bisogna proprio andarlo a cercare. E leggendo qua e là quelle che gli inserti speciali dei quotidiani definivano «curiosità» anche ai miei bambini era arrivata la notizia di un personaggio particolare. Un personaggio che per le proprie idee e per il colore della propria pelle era stato in carcere quasi trent’anni, Nelson Mandela. Dopo aver sofferto tantissimo Mandela era riuscito a farsi liberare e, addirittura, a vincere le elezioni per diventare il presidente di tutto il Sudafrica. Un uomo che onorava la parola politica con l’esempio più grande: quello di una vita spesa per la libertà e la democrazia. Mi colpì vedere gli occhi dei miei figli reagire, forse più perplessi che ammirati, al pensiero di poter stare qualcosa come ventisette anni chiusi in una prigione solo perché «colpevoli» di avere idee di giustizia e uguaglianza. E credo che sia stato importante sotto il profilo pedagogico poter dire loro che quell’uomo, quello stesso uomo che un regime aveva costretto in carcere, era diventato il capo dello Stato, quello che firmava le leggi, il garante del fatto che nessuno avrebbe più dovuto soffrire per simili atrocità. Una volta tornato in libertà, il desiderio di Nelson Mandela non era stato fare la guerra o vendicarsi, ma fare politica. Esattamente la stessa cosa che facevano gli altri, ma fatta bene, fatta all’insegna della giustizia e dell’uguaglianza.
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