Venisti con passi di sogno nel giardino
dove coloravo i miei pallidi poemi
ne l’ore taciturne del mattino.Così: smorta come il fiore di zagara,
le mie mani non osarono toccarti.La strada t’aveva dato il passo zingaresco,
l’occhio, vivo come i cieli de l’agosto
il sole, un tono acceso di moresco
sul marmo de la carne: un po’ scomposto.Ma tu sognasti il tempio di corallo,
ebbro d’avvinazzati, ne la luce azzurra
che torceva le colonne di cristallo,
le coppe d’agata rotte ne la suburraal tuo nome divino: lussuria!
Ti pregai come un bimbo, stanco
di giocare col medesimo gingillo:
chiudimi nel sonno!
E mi bruciasti gli occhi
col fuoco dei capezzoli.Ti chiesi acqua per le mie labbra bianche,
e per le mani che sentivo, ora,
lorde al tuo contatto.
Sul limitare del crepuscolo,
mi piegasti i ginocchi
dinanzi a pozze torbide di sangue.Ma quando, una notte, ti dissi,
a mezza voce, col tremito dei malati d’amore:
non aprire al sole le porte,
ne la luce non ti sento mia;
nel giardino del silenzio
trasvolava appena
al chiaro della fontana una falena:
era il mio sogno buono di rinunzia.Il tuo corpo s’era incenerito di piacere,
e ti credesti l’eletta, la meravigliosa amante
del solitario errante.Non venne il sole;
e in ciò tu fosti amore,
solo per questo: avevi creduto alle mie parole.Io non amavo te: baciavo la notte;
mi piaceva coglierti così: come un fiore nascosto
che si senta, solo, per il suo profumo.Poi, non eri che l’ombra d’una mammola
ne l’ombra d’un cipresso: nulla!
Titolo della poesia
La lussuria