Incipit di “Invisibile”, di Paul Auster La prima volta che gli strinsi la mano fu nella…

La prima volta che gli strinsi la mano fu nella primavera del 1967. Ai tempi frequentavo il secondo anno di università alla Columbia: ero un ragazzo ignorante e affamato di libri che coltivava la fede (o l’illusione) di diventare un giorno così bravo da potersi definire un poeta; e da lettore di poesia, avevo già incontrato il suo omonimo nell’Inferno di Dante, un dannato che si trascina nei versi finali del canto XXVIII della prima Cantica. Bertran de Born, il poeta provenzale del XII secolo, tiene per i capelli la propria testa recisa che ondeggia avanti e indietro come una lucerna: senz’altro una delle immagini più grottesche nel catalogo di allucinazioni e supplizi che si sussegue per tutto l’Inferno. Benché fosse convinto estimatore della poesia di de Born, Dante lo condannò alla dannazione eterna per aver consigliato il principe Enrico di ribellarsi a suo padre, Re Enrico II; e dato che de Born aveva provocato una divisione fra padre e figlio rendendoli nemici, l’ingegnosa pena dantesca è dividere de Born da se stesso. Da qui il corpo decapitato che si lamenta nel mondo sotterraneo, chiedendo al viaggiatore fiorentino se può esistere dolore più tremendo del suo.

Incipit

Invisibile

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