Avevo intorno ai tredici anni, era il 1933, quando incontrai Benito Mussolini. Ci sembrò un sogno. Una mattina alle 9, a Palazzo Venezia, l’usciere Navarro ci fa entrare nella mitica Sala del Mappamondo. Era immensa e lustra come uno specchio. Mi tremavano le gambe. Il Duce ci aspettava dietro un grande tavolo. Salutiamo romanamente nelle nostre divise fiammanti. Poi il Duce parla con voce rotonda: “Camerati, vi ascolto”. Al che il veterano si slancia in avanti: “Eccellenza, Duce, ecco il mio piano laborioso. Darà lavoro a centinaia di persone”. E gli porge alcuni fogli con mappe e grafici. Passano cinque, dieci secondi, sufficienti perché Mussolini intuisca tutta l’inconsistenza del progetto. “Mi vorreste alla posa della prima pietra? No – dice -, vi do tempo. Verrò all’ultima”. Così ci licenzia, e noi usciamo dal palazzo come cani bastonati.[…]Mi è servito in seguito. Non ho più raccomandato nessuno. Quando c’è qualcuno che insiste, gli dico: guarda, mi è andata male perfino con il Duce.
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